21º
Nonno Salvo
La prima parte della mia terza vita
Era verso la fine di gennaio, al tramonto.
Si preparava una di quelle sere che ti fanno tremolare le vibrisse e irrigidire la punta della coda, perfino nel
''solatio, tranquillo ed accogliente porto di una splendida cittadina campana affacciata sulle sponde del Mediterraneo'', come raccontano le locandine per i turisti. Gironzolavo senza una precisa meta, nella speranza di trovare qualche pesciolino troppo piccolo scartato dai pescatori che ritiravano le reti con il loro misero bottino, o magari gli avanzi della colazione di qualche turista gettati in qualche improbabile cestino dei rifiuti. Avevo anche tanta sete, perché sembra strano, ma in un porto di acqua ce n’è in abbondanza, però è tutta salata.
Probabilmente anche i muchi che mi scorrevano dagli occhi e dal naso e la bava dalla bocca ormai sdentata facevano la loro parte. Mentre ciondolavo a passo lento lungo le vetrine del negozio di nautica, guardavo. Gatto, fratello, ho pensato: sei proprio diventato un rudere, secco secco e spelacchiato, bavoso e con gli occhi incispati. Dicono che i gatti non si riconoscono allo specchio, ma a giudicare dalla fiacca che mi sentivo addosso e dal borbottio dello stomaco da troppo tempo vuoto, il sospetto che quello nella vetrina potessi essere io mi ha assalito, e come.
Avevo un solo occhio ancora parzialmente funzionante, e quello che ho intravisto non mi è piaciuto proprio per niente. Altro che il lupo di mare sciupagattine che ero stato dall’estate del duemilanove, quando ancora avevo una casa e giravo libero per il porto in cerca di avventure! A proposito, che debole per le rosse, che sono dei tipini focosi e passionali e anche piuttosto rari. Ma sto divagando. Sissì, anche oggi quando risento nella mia testa o, piu raramente nello stomaco, i morsi della fame divago, per non rivivere quei tempi durissimi e cerco di ripensare alla giovinezza che fu.
Ma torniamo a quella sera d’inverno. Tutto a un tratto sento dietro di me il ticchettio di due tacchi a spillo che procedono a ritmo svelto lungo il selciato. Ah, adoravo i tacchi a spillo, quando ero un giovanotto. Mi volto e con la coda dell’unico occhio – il sinistro per la cronaca – vedo stagliarsi nella vetrina una sagoma snella e scura che si muove veloce verso la piazzetta del bar. Rallento ulteriormente il passo, fino a vederla sfilare davanti a me e superarmi. Però, belle forme e lunga chioma castana deve avere, bel tipo, davvero. Fidatevi, me ne intendo. Mi accingo a riprendere il mio incerto cammino ed ecco che il ticchettio rallenta, si fa incerto e poi si spegne.
Micetto, che ti è successo?
Una voce squillante e un profumo fresco di agrumi mi avvolgono tutto a un tratto. Sono stordito. Ho la gola secca secca, non so se per l’emozione o per la sete e l’aria fredda, e riesco a dire solo
grrru
Allora quell’apparizione si china verso di me, mia fa una carezza sulla testa – e chi si sottrae a tanta gentilezza- e mi dice:
Io sono #Roberta, vieni con me micetto, tu hai bisogno di qualcosa di caldo
E si avvia verso il bar. Io la seguo un po’ incerto perché spesso quando c’è quell’omaccione rude e burbero dell’anziano padrone, si tratta si rischiare come minimo strilli insulti e calci. Fortunatamente quella sera c’era solo il barista, un ragazzetto giovane e smilzo, un tipino molto più gentile, troppo spalmato di gel per i miei gusti, ma soprattutto molto sensibile alle grazie femminili. Mentre resto esitante sulla soglia, la mia accompagnatrice si avvicina al banco, sfodera un sorriso che non ammette obiezioni e chiede al barista:
Che cosa possiamo offrire al mio giovane amico?
Quello la guarda stralunato, forse pensa che la ragazza è decisamente carina ma anche un po’ suonata ed ha un amico immaginario. Però sta al gioco
Doppio whisky on the rocks?
propone. (No, amico fermati, penso io, sono lontani i tempi che mi facevo le tazze di contrabbando sulle barche in compagnia dei marinai).
Ma nooo ... un latte caldo non ce l’abbiamo?
squilla lei, voltandosi un istante verso l’entrata
Certo, tesoro, macchiato? Corretto? Con una buccetta di limone?
non si perde d’animo lui. (Bleahmiau, mormoro io, scoraggiato).
Ma no, ma no, grazie. La prego prepari una tazza di latte caldo, ma non bollente e senza schiuma, per favore.
con quel tono gentile che cominciava ad essere musica per le mie orecchie. Lui esegue, mette il latte in una tazza di porcellana finissima (che strano, non ci vedevo bene ma mi sembra che somigliavano a quelle che avevano dove abitavo tanto tempo fa!), con tanto di pizzo di carta sul piattino, e la mette su un vassoietto. Lei, senza fare una piega, la prende dal banco, si dirige verso l’entrata, si china e me la posa davanti, proprio sulla soglia del bar. Io la guardo incredulo per un nanosecondo e…
mi salvo.
Sì ragazzi, mi salvo.
Bevo, mangio, mi nutro, mi scaldo. Questo ho pensato e nient’altro un istante prima di tuffare il muso tutto intero in quella bevanda che non era latte. Era ambrosia (nella mia prima vita frequentavo gente colta, io!), linfa, calore, amore, era vita! Nella mia terza vita ho in seguito appreso che i gatti non devono bere latte vaccino perché lo digeriscono male, e può darsi anche che questo spieghi la cacarella del giorno dopo, che all’epoca avevo attribuito alle troppe forti emozioni. Ma in quel momento quel tiepido liquido candido rappresentava per me la svolta, la salvezza.
Che la via della salvezza definitiva sarebbe stata ancora lunga e tortuosa non lo immaginavo nemmeno in quel momento, ma questa è un’altra storia, In quel momento io avevo incontrato una fata buona e la fata buona aveva fatto una magia con una tazza di porcellana, e io ero Salvo.
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Michele
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Christina Linda
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