25º
Artù
E ora chiudete gli occhi.
Ma chiudeteli forte forte, che non passi un filo di luce. E non barate!
Ora immaginate. Vi trovate in un luogo nuovo. Non riconoscete i rumori, il suono delle voci e nemmeno gli odori vi sono familiari.
E poi l’aria si sposta continuamente. Presenze deformano lo spazio intorno a voi, la vostra rassicurante bolla vitale. Sono presenze in movimento, a volte ne schivate una destra, un attimo dopo l’avvertite giungere alle spalle, a volte provengono dalla direzione opposta. Sono tante, in continua circolazione, e non sapete distinguere per certo le loro intenzioni. Curiose? Ostili? Accoglienti?
Certo, poter riconoscere un sorriso semplificherebbe le cose. Ma come riconoscere un sorriso dal profumo, dalla vibrazione nello spazio? L’unica possibilità, forse, è soffiare: se al soffio non segue risposta uguale e di opposto segno, vuol dire che la presenza non ti vuole male, e puoi proseguire.
Proseguire nella tua esplorazione del territorio. Misurare con l’apparato ad ultrasuoni delle vibrisse (immaginate di avere delle vibrisse, lunghe, sottili, folte) ogni angolo, ogni svolta, ogni perimetro. Sondare lunghezze, margini, ostacoli, precipizi, vie di ritirata.
È grande lo spazio, complicato, fatto di incastri e di aperture. Ed è pervaso da un olezzo che a tratti vi sembra l’odore del vostro stesso corpo, a tratti invece vi risulta del tutto estraneo. Vi inebria e vi disorienta questo odore, questo posto. È vostro, eppure non vi appartiene. Sovrano non ancora riconosciuto, mendicante sazio in cerca di un punto fermo.
E poi ci sono quelle presenze quasi glabre, sviluppate verticalmente. Lo sapete che sono quasi glabre e sviluppate verticalmente perché le avete sfiorate, e la liscezza che vi hanno offerto vi ha sorpreso e rassicurato al tempo stesso, e vi siete abbarbicati a quei tronchi scivolosi ed erranti. Hanno voce quelle presenze, una voce suadente e modulata che ripete ancora e ancora il vostro nome, in maniera stridula, suadente, gorgogliante, sembra quasi una melodia. L’unica cosa familiare, in questo luogo nuovo, la melodia del vostro nome. Con tante variazioni sul tema, ma sempre la stessa. Sicura.
È poi c’è un oggetto, morbido, duttile, avvolgente. Familiare. Che vi appartiene, che viene dalla precedente vita, un vita breve ma morbida ed avvolgente come quell’oggetto. Che ha una valenza simbolica, forse. Ma per voi è semplicemente morbido, duttile, avvolgente. Come la vita che avete appena lasciato per affrontare questa nuova.
Ecco. Ora potete riaprire gli occhi e guardarvi intorno. È il vostro nuovo mondo.
No, lui gli occhi non li ha chiusi. Sono aperti. Quel poco dell’iride che è rimasto è azzurro, perfettamente intonato al tuo manto candido e rosso. Ma dalle pupille non filtra nessuna luce. Neanche un filo.
Lo so, come sei fatto, perché me lo hanno detto. E che cosa provi, perché lo so. Perché anch’io non ci vedo.
Benvenuto nella casa della tua terza, o quarta o quinta vita, piccolo re Artù.
Tuo Salvo da Agropoli.