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Vedi gato
L’immortale

All’inizio della mia seconda vita avevo la faccia pienotta, la macchiolina sul naso e la mia mascherina si presentava con una base un po’ più larga e si estendeva un po’ più in alto verso il cranio. Già, perché non avevo motivo di corrugare la fronte, all’epoca. O almeno così mi sembrava.

E avevo due occhi.

Con i quali perlustravo il territorio via via più ampio che andavo esplorando. Nel porto di #Agropoli e poi sulle spiagge che lo circondavano. Bellezza profusa con generosità da uno sconosciuto Architetto Paesaggista. Sconosciuto a me, o forse inesistente. Forse per caso quel mare limpido e smeraldino aveva diligentemente  scavato le rocce che delimitavano la terraferma e si era adagiato sulla sabbia chiara e impalpabile che lui stesso aveva creato, con il lungo e paziente andirivieni delle sue onde. Forse per fortuna quelle insenature, quelle baie erano diventate scampoli di paradiso e gli abitanti ne avevano tratto profitto come pescatori prima e come operatori turistici poi.

E forse il passaggio dalla prima alla seconda attività era stato un po’ troppo repentino, come ripeteva spesso l’Ammiraglio (quello della mia prima vita). Troppo poche generazioni erano intercorse, perché la deferenza verso il mare, che per i pescatori era risorsa e pericolo al tempo stesso, si tramutasse in amorevole rispetto verso quei luoghi pieni di bellezza e di Storia che incantavano i visitatori. Anche il turismo, peraltro, era una risorsa e una minaccia al tempo stesso.

Già, perché alcuni fra gli angoli più suggestivi di questo paradiso terrestre erano costellati di baracche improvvisate, di ristoranti coi muri scrostati, di alberghetti con le imposte sgangherate, gli infissi in alluminio anodizzato color oro e i vetri opachi a testimoniare di un’imprenditoria iingenua e di speranze avvizzite prima ancora di fiorire veramente, e i rifiuti di plastica abbandonati nei recessi più pittoreschi parlavano di una mancanza di rispetto per l’ambiente che al tempo accomunava padroni di casa e visitatori.

Gironzolavo così lungo la spettacolare baia di Trentova facendo le mie considerazioni fra bellezza e bruttura (all’epoca ero  incline all’elucubrazione come il nostro #Professor Gottfried, in seguito la vita mi avrebbe reso più pragmatico), quando scorsi due uomini di una cinquantina d’anni spuntare da dietro il famoso scoglio ed avviarsi verso la battigia sabbiosa. Avevano tutta l’aria di essere turisti. Quello più alto e robusto coi capelli brizzolati indossava solo un paio di boxer da mare fiorati con il logo di una linea molto in voga quell’anno (ne avevo visti almeno una dozzina simili, ed eravamo solo alla fine di giugno) e le classiche ciabattine infradito brasiliane, quelle autentiche. Era già parecchio abbronzato. L’altro invece, più smilzo, aveva la carnagione chiara e i capelli scurissimi che non dovevano essere stati tagliati da almeno quattro-sei mesi e un lungo naso affilato che gli solcava il viso dai lineamenti marcati, camminava scalzo e  indossava camicia e pantaloni di lino candido  dal taglio elegante, che fremevano appena alla brezza del mare .

Incuriosito, li seguii a distanza di sicurezza, ma abbastanza da vicino per poter udire, anche se non del tutto distintamente, il loro parlottio. Parlavano in francese, lingua a me non del tutto sconosciuta, grazie alle letture ad alta voce della #Signora Gabriella della mia prima vita. Colsi le parole (traduco, per chi di voi non avesse dimestichezza delle lingue) “azione, ventidue  pallottole, sicari, criminalità organizzata...”. Il cuore mi fece un balzo e pure io feci un balzo per avvicinarmi e capire meglio. E quelli continuavano: “uccisione, rapimento, vendetta...” “E ci sarà un risvolto? Un lieto fine?” Udii chiedere il tipo più alto e massiccio. “Beh dipende da noi, no?” Rispose lo smilzo. E come poteva esserci un lieto fine con simili premesse? mi domandai, con un sospiro di sgomento. E lo sgomento dovette essere così forte che il sospiro giunse all’orecchio dei due che si voltarono e mi fissarono. “Ce l’ho! Il gatto!” esclamò il tipo in bianco. Un brivido mi attraversò la pelliccia dalla punta delle orecchie al sottocoda, e feci davvero fatica a mantenere la continenza. Che cosa volevano farmi costoro? Rapirmi? Impallinarmi? Consegnarmi alla malavita?

La paura dovette dipingermisi sulle righe della fronte e così ebbero pietà di me. Smisero di parlare, si sedettero su uno spuntone di roccia e, con un sorriso, quello grosso mi fece cenno, vieni qua, micione! Potevo fidarmi? Ero molto incerto. Fatto si è che quello cacciò fuori da una tasca dei boxer una scatoletta di tonno all’olio extravergine d’oliva, l’aprì dalla linguetta e la posò a terra davanti alle mie zampe. Siccome il digiuno cominciava a farsi sentire, misi temporaneamente da parte le mie perplessità e mi avventai sulla scatoletta. Trangugiai il contenuto più veloce che potevo, sempre pronto, all’occorrenza, a scatto e fuga, mentre loro mi osservavano silenziosi. A pancia piena si ragiona meglio, e mi dissi: se avessero voluto farmi del male, mi avrebbero catturato mentre mi avvicinavo alla scatoletta, non in fase di digestione. Mi acquattai e li guardai con l’espressione interrogativa di chi esige spiegazioni.

Lo snello trasse un lungo respiro, mi fece un fugace grattino sulla testa e iniziò a parlare, in italiano, con una voce cadenzata e melodiosa e con le “erre” appena appena arrotate. “Vedi, gatto, come avrai sicuramente notato, noi siamo turisti in vacanza nella vostra bella cittadina. Lui è un famoso attore e io sono attore e regista” Li guardai con gli occhi spalancati. Era vero! Quello grosso lo avevo già visto sulle locandine del cinema in piazza! Mi rilassai e continuai ad ascoltare le spiegazioni. “Vedi, gatto”, riprese il discorso l’altro, “siamo due creativi, e i creativi non hanno mai veramente la testa in vacanza. E quindi mentre stavamo godendoci questo bel mare, discutevamo del nostro prossimo film.” Ah ecco un film d’azione, di quelli con gli inseguimenti, le sparatorie, i morti che cascano a destra e sinistra come i birilli. Un genere che appassionava l’Ammiraglio, che se li gustava sempre in tv, mentre la Signora Gabriella ed io nello  studiolo ci dedicavamo a letture più erudite. No, decisamente non il mio genere. All’omone brizzolato non dovette sfuggire il mio sguardo di riprovazione, e si affrettò a spiegare, con voce baritonale e una parlata italiana un po’ più stentata dell’altro, vagamente spagnoleggiante e infarcita di vocaboli nell’idioma iberico e “Vedi, gato” (e ridaje con questo “Vedi gatto”, stavolta con una t sola), “a me piace dare spessore ai personaggi che interpreto, conferire loro umanità, facetas, sfaccettature. Mai todos buenos, mai tutti cattivi.” Fu allora che notai che aveva il labbro superiore sottile e quello inferiore carnoso. So che gli umani hanno questa convinzione, o pregiudizio, che le labbra sottili sono segno di durezza, di asperità del carattere, le labbra grosse sarebbero invece indice di morbidezza, di generosità. Insomma un tipo mezzo buono e mezzo cattivo a far seguito a questa credenza. L’ideale per incarnare un personaggio con le facetas. “Adesso”, continuò l’uomo dalla doppia personalità, “noi estiamo progettando questa  pelicula, que es trata da un romanzo, che è tratto da una storia vera. È un duro, il protagonista. Uno che non perdona. Ma è capace anche di sientimentos, non solo di vendetta e di giustizia, ma anche di tenerezza e di amore.” “E allora ci stavamo arrovellando”, incalzò l’altro “come potevamo rendere nel film lo spessore di questo personaggio, i suoi risvolti. Senza parole. Perché, vedi gatto (ancora!),  in un libro i pensieri e i sentimenti  li puoi descrivere con le parole, in un film li devi far vedere, devono passare attraverso l’azione.” Si vabbè, ma io che c’entro mi chiesi io. E ancora una volta ebbe la sensibilità di cogliere il mio interrogativo, proprio come se stessimo dialogando.
“Quando ti ho visto, gatto, con la tua aria affamata e curiosa, ho provato un sentimento di simpatia per te. E ho capito che la sensibilità del personaggio possiamo farla passare attraverso il suo rapportarsi con un gatto. Ecco perché ho esclamato [ce l’ho! Il gatto!] e tu ti sei spaventato da morire, vero?” Feci finta di non aver sentito. “Sienti, gato”, l’uomo grosso si spinse oltre , “potremmo girare qualche scena con te, che ne pensi?” Che cosa ne pensavo lo intuì subito l’altro, il regista: “Tu ora stai pensando che non hai frequentato nessuna scuola di recitazione e che non sei all’altezza di interpretare la parte. Ma tu stai frequentando la scuola della vita, e chissà per quanto tempo la frequenterai ancora, con tutte le sue avventure e le sue asprezze”, (Quanto furono premonitrici quelle parole!) “e questo fa di te un magnifico interprete.” L’argomentazione sembrava convincente. Ci demmo appuntamento in spiaggia l’indomani alle quindici, proprio lì, nella baia di Trentova.

Ah,  non ho mai saputo che cosa ci facesse una scatoletta di tonno all’olio extravergine di oliva nei boxer da mare di un attore cinematografico.

Picchiava duro il  sole alle tre del pomeriggio sulla baia di Trentova. E come se non bastasse, qualcuno aveva acceso un fuoco con la legna racconta sulla spiaggia, vicino al relitto di uno yacht spiaggiato in un’insenatura. Lo scorsi in lontananza mentre, appostato su uno scoglio, aspettavo che arrivasse la troupe del cinema. L’aria era pervasa da un profumo di salsedine e di pesce arrosto, così mi affrettai a scendere dalla roccia ed avvicinarmi a quel focolare improvvisato. Solo allora mi accorsi dell’omone che mi dava le spalle, seduto su una cassetta, e attizzava il fuoco e maneggiava una griglia con un grossa orata che si stava arrostendo. Accanto a lui una cassa di legno più grande, rovesciata fungeva da tavola,  apparecchiata con un piatto di fine porcellana a fiori rosa, leggermente sgrugnato (un servizio così l’Ammiraglio l’aveva ereditato da sua nonna) ed un piatto da portata bianco, due forchette di stagno, un bicchiere di vetro di fattura  ordinaria, una bottiglia d’olio con il tappo erogatore. Non stetti a interrogarmi su dove avesse reperito quei cimeli, né mi chiesi come mai con quel caldo indossasse jeans pesanti, maglione di lana e scarponi.  Mi accovacciai semplicemente su una terza cassetta di legno che con le altre formava un primordiale salottino. Tanto per annunciare la mia presenza e fare un saluto da gatto duro a uomo duro, feci un breve miagolio gutturale,  per annunciare la mia presenza. Lui emise un suono umano ugualmente gutturale, forse disse “Hola”, ma non ne sono sicurissimo. Stappò una bottiglia di birra imperlata di freddo (dove diavolo l’aveva scovata, mi chiesi?) e la versò nel bicchiere, ne bevve un sorso generoso ed emise un “haaah” di gusto e refrigerio e subito dopo un sonoro rutto. Mi era sembrato un tipo più fine ed educato il giorno prima, ma non dissi nulla. Scrutando l’orizzonte, mentre il pesce continuava a sfrigolare sulla fiamma, mi disse: “Sai, gato, pure io sono nato in un posto così, ma dall’altra parte del mare. I miei non erano gente de mar, ma per loro il mare rappresentava la libertad, e così vollero farmi nascere in una terra libera, dall’altra parte del mare. Adesso forse è il contrario, la libertà è da questa parte e di là c’è tanta miseria e tanto sufrimiento. Ma io sono nato libero. Questo loro volevano e di questo li ringrazio. Ti piace il pescado?” Che razza di domanda. “Ne vuoi un po’?” Che razza di domanda. Tolse l’orata ormai bella abbrustolita dalla fiamma, la posò sul piatto di portata e con cautela, in punta di dita, iniziò a spinarla. Depose dei pezzetti sul bordo del piatto, aspettò che si raffreddassero e poi me li porse, uno ad uno. Erano deliziosi. Lui cosparse il rimanente pesce con un abbondante filo d’olio e se lo scofanò con grande gusto, schioccando la lingua sui denti e innaffiando ogni boccone con una sorsata di birra. “Mica vuoi un po’ di cerveza, no?!” chiese l’omaccione. Lo guardai incerto. Beh, a giudicare dal piacere che sembrava provare, era un’esperienza da non tralasciare, orata arrosto su legna di mare e birra chiara ghiacciata. “Va bene, è una giornata straordinaria, festeggiamo il nostro encuentro. Fingerò di non vedere”. Rivolse di nuovo lo sguardo verso il mare, che rifletté i suoi bagliori cangianti  negli occhi grigioverdi del grande attore. Furtivamente immersi il muso nella birra rimasta nel fondo del bicchiere. Non mi chiesi lì per lì come mai il bicchiere avesse quella forma bassa e svasata. Anche perché quell’unico sorso di birra, o forse era la calura o l’ottimo pasto appena consumato mi catapultò in uno stato di assente beatitudine.  

Ma quando arrivava la troupe cinematografica? Ma forse nemmeno mi interessava più tanto.

“Stooop!!! Buona la prima!!!” Mi fece sussultare una voce alle nostre spalle. Era il regista dalle bianche vesti che si avvicinava, con aria molto soddisfatta, dietro di lui due macchinisti con le loro pesanti cineprese in spalla. “Siete andati benissimo! Proprio quell’umanità, quella gentilezza che la presenza del gatto speravo riuscisse a far emergere!”

Più tardi, la sera, mi ringraziarono con un’abbondante fritturina di paranza in un localino alla moda vicino al porto. Mentre il regista si fumava un’ultima sigaretta al tavolo, accompagnai il mio nuovo amico attore a fare due passi sul molo. “Sei stato bravo, gato!” Gli lanciai uno sguardo  interrogativo. “Sì, lo so, non hai recitato su un guión, un copione. Nemmeno ti sei accorto che ci stavano riprendendo. E forse proprio per questo hai fatto un piccolo miracle: hai tirato fuori la ternura, la parte tenera, el lado humano da questo personaggio così duro e violento. Ma di più, hai suscitato la gentilezza in me, l’attore, era di me che ti parlavo, mentre ti espinavo il pescado. Nemmeno io stavo più recitando. Voi gatti avete questi poteri.” Lo guardai un po’ meravigliato e un po’ compiaciuto. Ero molto giovane, allora, e queste affermazioni ancora mi stupivano. Oggi ne ho piena consapevolezza. Ci riavvicinammo al tavolo del ristorante, il regista spense il mozzicone della sigaretta, mi guardò dritto negli occhi e disse con fare solenne: “Vedi, Gatto, mi piacerebbe molto portarti con noi in Francia. Ti si prospetta una carriera.” Lo guardai un istante, sbalordito e sgomento.

Poi pensai alla mia terra e alla rossa sculettante che mi aveva fatto perdere la strada e la testa.

Feci gentilmente cenno di no, con un miagolio di ringraziamento, non volevo essere scortese. Guardai in faccia il mio amico attore: lui annuì, come se avesse capito. Molto tempo dopo venni a sapere che aveva avuto cinque figli con tre mogli diverse, le ultime due modelle polacche. (Io ne avrei avuti sicuramente molti di più, ma all’epoca non avevo nessuna consapevolezza della bomba demografica rappresentata da un gatto intero che vaga libero per strada)

Fu saggia la mia decisione? Che cosa mi avrebbe offerto e che cosa tolto una carriera da attore? Successo? Avrei sofferto, avrei conosciuto la fame e la malattia? Avevo varcato le sliding doors giuste della mia esistenza, tanto per dirla con una metafora cinematografica ormai quasi logora? Non lo saprò mai. So solo che ho passato un sacco di guai, ma oggi la mia vita è tranquilla. Vivo purtroppo in una casa senza vista sul mare, e gli unici gatti rossi sono ex-maschi (come me, del resto) e non sculettano. Ma sono un gatto rispettato e ho tanti amici.

Il film è del 2010. Il regista si chiama Richard Berry, l’attore protagonista Jean Reno. Oltre a me, ovviamente, Salvo da Agropoli.  Io sono nato nel 2009, così c’è scritto sul mio libretto sanitario. Ho da sempre una macchiolina sul naso, sul lato destro. E all’epoca ci vedevo con due occhi, oltre che col cuore.

Vedete voi se questa storia è verosimile o no. (Ma poi che importa?)

P.S. Dicono che le scene di mare sono state registrate in Provenza. Siamo proprio sicuri?

Ringrazio il mio amico umano #Marco Rossi, che è un grande cinefilo, per avermi riportato alla memoria questa storia, parlando del film proprio l’altra sera mentre si scofanava una torta di compleanno tutta fatta di pesce in onore della sua ex futura moglie. L’aveva colpito la somiglianza.

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